I documenti della persecuzione

Secondo capitolo del libro La passione di Padre Pio di Renzo Allegri (Mondadori, Milano, 2015).

Immagini e didascalie sono della nostra redazione.


Oggi non esiste più alcun dubbio sul fatto che Padre Pio sia stato perseguitato dalle autorità ecclesiastiche. Soprattutto perché, come abbiamo detto, la documentazione inconfutabile di quella persecuzione proviene dagli Archivi del Vaticano stesso.

Un comunicato stampa del Vaticano, in data 30 giugno 2006, informava che il Santo Padre Benedetto XVI aveva deciso di aprire ai ricercatori una nuova parte dell’Archivio segreto del Vaticano, quella dei documenti relativi al pontificato di Pio XI, che va da febbraio 1922 a febbraio 1939.

L’iniziativa di papa Ratzinger entusiasmò anche gli storici di Padre Pio. Da soli quattro anni, il frate con le stigmate era stato proclamato santo, con una cerimonia che aveva richiamato in piazza San Pietro una folla oceanica e aveva interessato tutti i media. Ma nel tripudio delle feste e delle celebrazioni, molti giornali erano andati a scavare nel passato, riportando a galla le condanne che il Padre aveva subìto da parte della Chiesa, proprio sotto il pontificato di Pio XI. E su quella stessa Chiesa, che ora elevava Padre Pio all’onore degli altari, dopo averlo avversato per decenni, si addensarono ombre e critiche velenose.

L’Archivum Secretum Vaticanum venne istituito alla metà del Seicento, ma contiene documenti che riguardano più di mille anni di storia. Documenti di estremo valore non solo per la Chiesa cattolica, ma per il mondo intero. Per questo è uno dei centri di ricerche storiche più importanti in assoluto.

È custodito in un locale, detto “Bunker”, su due piani, ricavato nel sottosuolo dei Musei Vaticani. Contiene milioni di carte e pergamene, perfettamente ordinate e catalogate, e riposte in una serie di scaffalature che, se messe in fila, raggiungerebbero 85 chilometri di lunghezza.

Il papato, per sua natura e per il potere spirituale che esercita sui credenti, ha rapporti, diretti o indiretti, con tutti gli Stati. Così, al Vaticano arrivano informazioni di ogni genere, da ogni parte del mondo.

L’aggettivo “segreto”, con cui viene indicato l’Archivio della Santa Sede, ha sempre stuzzicato la curiosità e scatenato la fantasia. Induce a pensare ad arcani misteri custoditi in quelle stanze. Ma a sproposito. Secretum, “oscuro”, “nascosto”, nel latino medievale ha assunto il significato di “privato”. Fin dall’inizio, quindi, è stato l’archivio “privato” dei papi.

È certo che contiene anche molti documenti scottanti, su vicende storiche che riguardano la stessa Chiesa. Soprattutto nei suoi reparti più “delicati”, legati all’attività del celeberrimo Sant’Uffizio, il supremo tribunale della Chiesa cattolica, competente a giudicare tutti i delitti contro la fede in ogni parte del mondo.

Questo tribunale venne fondato da papa Paolo III nel 1542, e si chiamava Congregazione della Sacra Romana e Universale Inquisizione. Era cioè uno degli strumenti giuridici di quella che fu la Santa Inquisizione di sinistra memoria, e mantenne sempre un carattere inquisitorio, esercitato con fredda severità ed estremo rigore. Nessuno sa quanti morti, quanti delitti furono commessi in nome della fede cristiana dalla Santa Inquisizione, soprattutto quella spagnola.

Nel corso del Grande Giubileo del 2000, papa Wojtyła volle chiedere solennemente perdono a Dio per quei delitti, che in molti ambienti cattolici si è sempre cercato di minimizzare o addirittura negare. Prima di compiere quel gesto storico, papa Giovanni Paolo II volle avere informazioni precise. Fece organizzare dall’allora prefetto del Sant’Uffizio, il cardinale Joseph Ratzinger, un simposio di studi storici sulla Santa Inquisizione, al quale parteciparono una cinquantina di esperti provenienti da tutto il mondo. Il simposio si tenne in Vaticano dal 29 al 31 ottobre 1998. Alla luce dei risultati, Wojtyła organizzò la storica Giornata del Perdono del 12 marzo 2000, prima domenica di Quaresima, con una cerimonia solenne, in piazza San Pietro, trasmessa in mondovisione. All’omelia, il papa spiegò la ragione di quella giornata. «Come Successore di Pietro, ho chiesto che in questo anno di misericordia la Chiesa, forte della santità che riceve dal suo Signore, si inginocchi dinanzi a Dio ed implori il perdono per i peccati passati e presenti dei suoi figli… Riconoscere le deviazioni del passato serve a risvegliare le nostre coscienze … Chiediamo perdono per le divisioni che sono intervenute tra i cristiani, per l’uso della violenza che alcuni di essi hanno fatto nel servizio alla verità, e per gli atteggiamenti di diffidenza e di ostilità assunti talora nei confronti dei seguaci di altre religioni».

Al termine della Messa, sette cardinali recitarono un’invocazione ciascuno per gli errori commessi nel corso dei secoli, e Giovanni Paolo II chiese sette volte perdono per quelle colpe storiche. E tra esse vi erano certamente anche quelle che riguardavano Padre Pio, innocente perseguitato per mezzo secolo. Alla fine di quella cerimonia, papa Wojtyła abbracciò e baciò il crocifisso.

Per molti secoli, l’Archivio segreto del Vaticano rimase inaccessibile agli estranei. Fu papa Leone XII, nel 1881, ad aprirne le porte agli studiosi. E la Chiesa mantenne, in seguito, la prassi di “liberalizzare” i documenti di quell’archivio a “scaglioni temporali”, cioè a periodi storici che non fossero troppo vicini all’attualità. Procedendo per pontificati.

Come abbiamo appena ricordato, fino al 2006, si poteva consultare l’Archivio segreto del Vaticano fino al pontificato di Benedetto XV, cioè fino al 1922. Nel 2006, papa Benedetto XVI aggiunse il pontificato di Pio XI, che va dal 1922 al 1939.

Quegli anni coincidevano proprio con il periodo della “prima persecuzione” a Padre Pio. Persecuzione sulla quale, da decenni, correvano voci, leggende, polemiche. Finalmente si poteva fare chiarezza, alla luce dei documenti.

Padre Pio durante il periodo della "prima persecuzione".
Padre Pio durante il periodo della “prima persecuzione”.

In quell’archivio, esiste un reparto indicato con la scritta “Padre Pio da Pietrelcina”, dove si conservano ancora decine di grossi faldoni.

Per farsi un’idea della mole di materiale conservato nell’Archivio e riguardante il Padre, basti pensare che un vescovo, che voleva consultare una relazione scritta da monsignor Mario Crovini nel 1960, quando era stato incaricato di una visita apostolica a San Giovanni Rotondo, si è visto presentare dall’archivista un documento contrassegnato con il numero 1225. «Significa», disse l’archivista sorridendo, «che questo documento è preceduto da altri 1224».

In quei faldoni di documenti si conservano lettere accusatorie, verbali di interrogatori, relazioni di inchieste, di visite apostoliche, di visite mediche, di perizie, di valutazioni di esperti, resoconti di processi, sentenze eccetera. Tutto quello che riguardava Padre Pio e arrivava in Vaticano fu conservato, etichettato, classificato. Anche le lettere anonime.

Di ogni provvedimento ufficiale preso dal Sant’Uffizio nei confronti di Padre Pio si custodisce qui la completa documentazione. Anche le minute delle discussioni tenutesi nelle sedute plenarie del collegio dei giudici del Sant’Uffizio, con le varie valutazioni, chiarificazioni, pareri di esperti, di teologi, di medici, di vescovi, di cardinali e dello stesso papa, che controllava ogni cosa e alla fine esprimeva il suo parere e il suo giudizio definitivo.

Nei casi in cui il consiglio del supremo tribunale, che era composto da un collegio di cardinali, detti “Cardinali Inquisitori”, metteva ai voti un provvedimento, si trovano, in quei faldoni, i risultati con i nomi e il parere di ciascuno, espresso sui singoli temi in discussione.

Dopo la disposizione di Benedetto XVI, anche gli incartamenti riguardanti il “caso” Padre Pio divennero accessibili. Alcuni studiosi se ne interessarono e pubblicarono dei libri. Fu così ampiamente confermata e documentata la persecuzione che tanti invece negavano.

Anzi, si scoprì che la vicenda era molto più complessa di quanto si poteva immaginare. Non tanto per il Padre, quanto per i suoi nemici. Quelle carte contenevano anche una grande quantità di documenti che li riguardavano, e che erano stati inviati dagli “amici” di Padre Pio, per dimostrare che gli accusatori del religioso non erano attendibili. Coinvolgevano alti esponenti delle gerarchie ecclesiastiche. Personaggi che abusavano della loro posizione e del loro potere per interessi privati e spesso riprovevoli. E non solo nella diocesi di Manfredonia, da cui dipendeva il convento di Padre Pio, ma anche a Roma e in Vaticano. Questi individui si spalleggiavano, si scambiavano favori, erano coalizzati tra loro, formavano delle lobby potenti e ciniche.

Mettere le mani su quei faldoni significava aprire le porte di armadi nei quali erano nascosti scheletri molto compromettenti. Per evitare scandali clamorosi, quelle porte continuarono a essere blindate per anni. Ma le nuove disposizioni di Benedetto XVI hanno, almeno in parte, posto fine a quell’omertà assurda.

Uno dei primi ad accorrere è stato il professor Sergio Luzzatto. Il regolamento dell’Archivio Vaticano stabilisce che “solo studiosi qualificati, che abbiano interesse a compiere indagini di carattere scientifico” possono accedere a quei documenti. E Sergio Luzzatto, laureato alla Scuola Normale Superiore di Pisa, autore di varie pubblicazioni e docente di Storia moderna all’Università di Torino, aveva le carte in regola. Fu accolto in Vaticano “con la massima cortesia”, come egli ha scritto nei ringraziamenti alla fine del suo libro.

Sergio Luzzatto. Il suo su Padre Pio usa documenti storici per calunniare e denigrare il grande santo di Pietrelcina.
Sergio Luzzatto. Il suo libro usa documenti storici per calunniare e denigrare P. Pio.

Un anno dopo, nel 2007, Luzzatto pubblicava, presso Einaudi, un volume dal titolo Padre Pio. Miracoli e politica nell’Italia del Novecento. Un libro basato per la gran parte sui faldoni consultati nell’Archivio segreto del Vaticano. Quattrocentoventi pagine, fitte, e ogni capitolo corredato da miriadi di note. Un lavoro certosino che deve aver richiesto un impegno massacrante. Il libro ricevette applausi immensi dai giornali laici. Articoli, interviste e recensioni amplissime, con apertura su due pagine come non era mai accaduto neppure per le opere di Benedetto Croce. Ma suscitò anche vivacissime polemiche. Proprio perché in quel libro non si parla di niente che si avvicini alla figura di Padre Pio. L’autore si dichiara ateo, quindi legge e interpreta tutto in un’ottica che non ha alcuna attinenza con san Pio da Pietrelcina e con i valori spirituali e religiosi che ha rappresentato e che rappresenta per milioni di persone nel mondo. Inoltre, parecchi errori di nomi, di date e soprattutto valutazioni partigiane, mutuate da dicerie e luoghi comuni, un continuo fraseggiare inutilmente ironico nei confronti dei valori religiosi finiscono per indisporre e far pensare che lo storico non sia poi tanto oggettivo. Il Vaticano ha aperto le porte a Luzzatto ritenendolo “uno studioso con interesse a compiere indagini di carattere scientifico”.

Ma nel suo libro di scientifico c’è soprattutto un’idea fissa: dimostrare, proprio attraverso i documenti vaticani, quindi usando una fonte sicura, che Padre Pio fu un fantoccio. Servendosi di frasi tratte da lettere anonime, a pagina 255 per esempio, lo storico sintetizza la figura del santo con queste parole: “Era il capo di una vera banda di delinquenti, che approfittava di una pietà popolare tanto intensa da comprendere – fra l’altro – la disponibilità di numerose pie donne a soddisfare i suoi appetiti sessuali”.

Comunque, al di fuori di qualsiasi libera valutazione del contenuto del libro, il materiale che Luzzatto ha usato è tratto dall’Archivio segreto del Vaticano, e questa è un’ulteriore, ineccepibile prova che la tanto discussa persecuzione a Padre Pio da parte delle autorità ecclesiastiche fu reale, massiccia, e continua.

Padre Pio, per don Castelli, fu vittima del fanatismo e non fu mai veramente perseguita dalla Chiesa.
Padre Pio, per don Castelli, fu vittima del fanatismo e non fu mai veramente perseguita dalla Gerarchia.

Interessanti sono i due volumi scritti da don Francesco Castelli: Padre Pio e il Sant’Uffizio (1918-1939), pubblicato da Edizioni Studium, e Padre Pio sotto inchiesta. L’“autobiografia segreta”, pubblicato da Ares, con prefazione di Vittorio Messori.

Castelli, sacerdote, storico, docente di Storia della Chiesa all’Istituto Superiore di Scienze Religiose Romano Guardini di Taranto e direttore dell’Archivio Storico della diocesi di Taranto, analizza quel materiale riguardante le vicende della vita di Padre Pio con rispetto degli apparati ecclesiastici vaticani e dei valori religiosi, senza travisare la verità storica. Anche se, per un discutibile senso di “carità cristiana” verso i responsabili di quei giudizi errati, anche Castelli tenta ancora di trovare scuse e giustificazioni per i colpevoli.

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La Chiesa santifica i suoi prediletti figli più con il bastone che con la carota.

Ottimo anche il volume di Padre Marciano Morra, Padre Pio e la Chiesa madre di santi e di peccatori. Morra visse a stretto contatto con Padre Pio e fu un testimone attento di molte vicende delicate, che non travisa.

Anche queste pubblicazioni, per il semplice fatto che sono costruite sui documenti dell’Archivio segreto del Vaticano, confermano in modo inconfutabile la realtà dell’accanimento persecutorio da parte delle autorità ecclesiastiche contro Padre Pio. Il contenuto delle decine di “decreti”, “delibere”, “dichiarazioni”, “provvedimenti” che citano e analizzano, emessi dal Sant’Uffizio nel corso di mezzo secolo, sono tutti “punitivi”. Forse mai nessun altro religioso ne ha collezionati tanti. Per poi risultare che erano condanne ingiuste. Quindi, Padre Pio fu una vittima innocente, mai riabilitata in vita.

Recensendo i libri citati, molti giornali hanno espresso stupore di fronte alla mole di documenti riguardanti il Padre, conservati in Vaticano. Hanno esaltato il lavoro degli autori di quei libri affermando che avevano fatto conoscere un materiale esplosivo e assolutamente inedito. Ma non è esatto. Quasi niente era sconosciuto. Anzi, si può dire che tutto era conosciuto e che era anche stato pubblicato.

A metà degli anni Venti del secolo scorso, quando infuriava la “prima persecuzione” a Padre Pio, venne fondato un “Archivio segreto laico”, parallelo a quello vaticano. I creatori furono alcuni amici del Padre. Vedendo che il religioso era condannato ingiustamente, e che nessuno dei suoi confratelli, e neppure nessun cattolico osservante, potevano difenderlo perché era “peccato” contravvenire alle disposizioni del supremo tribunale del Sant’Uffizio, decisero di seguire la strada della “disobbedienza ragionata”. Avevano la certezza e le prove che il Padre era punito ingiustamente e scelsero la verità. La verità sta sopra tutto, anche sopra la legge, pensavano.

Per smantellare le sentenze vaticane e dimostrare che erano ingiuste, iniziarono così a raccogliere documenti atti a provare che i detrattori di Padre Pio erano dei perfidi calunniatori. Con mezzi poveri, e a volte poco ortodossi, in breve tempo misero insieme una montagna di accuse. Si scatenò una guerra, il cui risultato pareva scontato visto che mai nessuno aveva avuto ragione contro il Sant’Uffizio, e invece alla fine gli “amici” di Padre Pio vinsero.

Questi “amici”, di cui parleremo ampiamente, erano dei convertiti, con alle spalle esistenze avventurose e peccaminose, anni di ateismo o di anticlericalismo – qualcuno proveniva dalla dirigenza della massoneria –, che il Padre aveva riportato alla fede. Ed erano diventati mansueti e umili. Ma quando videro che il loro padre spirituale piangeva sotto i colpi delle condanne, reagirono come cani arrabbiati. E poiché erano individui astuti e coraggiosi, formarono un gruppo potente. Lottarono isolati. Lo stesso Padre Pio, a un certo momento, li ripudiò, perché non voleva che si mettessero contro la Chiesa. Ma non mollarono mai. In anni di battaglie misero insieme una montagna di informazioni sui nemici di Padre Pio. Riuscirono anche ad avere in copia tutti i faldoni riguardanti il religioso che erano custoditi nell’Archivio segreto del Vaticano.

Per un certo periodo, il loro “Archivio segreto” fu tenuto nascosto a San Giovanni Rotondo, poi venne trasferito a Roma, quindi a Parigi, poi in Germania e in Svizzera. Cambiavano sede perché i protagonisti delle storie documentate in quelle carte erano disposti a tutto per averle, forse anche a uccidere, come vedremo più avanti.

Nella primavera del 1969, circa otto mesi dopo la morte di Padre Pio, il giornale dove allora lavoravo, il settimanale Gente, mi incaricò di fare una serie di articoli sul “frate con le stigmate”. Era uscito in quei giorni un articolo sul Corriere della Sera in cui si diceva che San Giovanni Rotondo era in disarmo, gli alberghi chiusi, i negozi falliti. Morto Padre Pio, i pellegrini non si facevano più vedere. L’articolo del Corriere irritò l’editore di Gente, Edilio Rusconi, che era un ammiratore di Padre Pio.

Il giornale mi aveva già inviato altre due volte a San Giovanni Rotondo per degli articoli: nel settembre 1967 e nell’aprile 1968, e in quelle due occasioni avevo incontrato Padre Pio e avevo conosciuto molti dei suoi fedeli amici. I due articoli che scrissi allora ebbero una calorosa accoglienza dai lettori. Per questo, l’editore Rusconi, nella primavera del 1969, volle riprendere l’argomento. Mi disse: «Dobbiamo fare un’inchiesta forte, in difesa di Padre Pio. È un grande santo, e la gente gli vuole bene».

Giuseppe Pagnossin. Prima di morire, affidò il suo archivio su Padre Pio alla FSSPX.
Ritratto di Giuseppe Pagnossin. Prima di morire, affidò il suo archivio su Padre Pio alla FSSPX.

Mi ricordai di un industriale veneto, Giuseppe Pagnossin, che avevo conosciuto durante il mio primo viaggio a San Giovanni Rotondo. Me lo presentarono come un grande amico di Padre Pio e lui mi disse che, se avessi avuto bisogno di informazioni sul frate, mi avrebbe aiutato. Gli telefonai. Lo incontrai a Padova. Era un uomo molto noto, titolare di una famosa azienda di ceramiche. Mi accompagnò in una villa veneta, in un paese vicino a Treviso. Mi fece vedere alcune stanze, che avevano l’aspetto di una biblioteca, con le pareti completamente rivestite di grossi volumi. «Questi», mi disse Pagnossin indicandomi i volumi, «sono tutti documenti rilegati che riguardano Padre Pio. Nella maggior parte sono fotocopie, gli originali sono in Vaticano. Ma sono fotocopie di originali autentici».

Ognuno di quei volumi conteneva documenti, ordinati cronologicamente, sulle vicende legate alla storia del religioso. Lettere del Sant’Uffizio, denunce, memoriali, decreti, interrogatori, verbali dei carabinieri, sentenze, trascrizioni di telefonate eccetera. «Abbiamo tutto», disse l’industriale. E mi spiegò che, fin dai tempi della, «prima persecuzione», di Padre Pio, alcuni figli spirituali del religioso avevano fondato un gruppo, “Amici di Padre Pio”, e avevano raccolto tutto ciò che lo riguardava, per poterlo difendere dalle calunnie che gli venivano rivolte. Il fondatore di quel gruppo era stato Emanuele Brunatto, un convertito, che aveva un’abilità investigativa “diabolica”.

Trascorsi in quelle stanze alcuni giorni a studiare le carte. Pagnossin, che conosceva bene il materiale, mi guidava. Il compito che avevo concordato con l’editore era quello di dimostrare, attraverso documenti e testimonianze di persone qualificate, che le accuse rivolte a Padre Pio, e continuamente riprese dai giornali, erano false. Brunatto era morto nel 1965 e Pagnossin era diventato la guida del gruppo Amici di Padre Pio. Aveva ereditato anche il famoso “Archivio segreto” di Brunatto e se ne serviva per far conoscere la verità sul religioso di Pietrelcina.

Nel 1967 aveva finanziato la pubblicazione di una poderosa biografia in tre volumi su Padre Pio, tratta da quell’archivio, scritta da due giornalisti, Francobaldo Chiocci e Luciano Cirri, con il titolo Padre Pio. Storia d’una vittima. Sempre sulla scorta di quei documenti, aveva fatto uscire dei libri in Francia e degli articoli anche in America. La mia inchiesta Gente era la prima nel nostro Paese, molto importante per via della popolarità del settimanale che la pubblicava, che raggiungeva alcuni milioni di lettori e, uscendo in Italia, non poteva essere ignorata dal clero e da quei cattolici che, per obbedienza alle disposizioni ecclesiastiche, stavano lontani dal Padre, pur avendo per lui ammirazione.

L’effetto fu strepitoso. La gente prenotava le copie del settimanale per leggere la “storia segreta del santo stigmatizzato”. I calunniatori del religioso divennero velenosi. Querelarono me e il settimanale. Una delle personalità che si sentirono offese dai miei articoli mi telefonò e mi disse: «In tribunale i miei avvocati la schiacceranno come un verme». Ero spaventato. L’avvocato del giornale era il professor Pietro Nuvolone, uno dei più noti penalisti e giuristi italiani, docente di Diritto penale all’Università degli Studi di Milano, ma anche lui era perplesso.

Telefonai a Pagnossin, che mi disse: «Non ti preoccupare, ogni parola di quello che hai scritto è supportata da documenti sicuri». E qualche giorno dopo, sapendo che ero molto in ansia, mi ritelefonò rassicurandomi: «Con il professor Nuvolone, ti difenderà anche il mio avvocato, il professor Ettore Gallo». Non conoscevo quel nome, ma, come seppi poi, il professor Gallo era un altro illustre principe del foro, che sarebbe diventato in seguito giudice costituzionale e poi presidente della Corte costituzionale. Anche lui ammiratore di Padre Pio. «Non ci sarà nessuna udienza», mi disse il professor Gallo al telefono. «Se per caso il querelante si presenterà in tribunale, verrà arrestato in aula». Non capivo niente. Fatto sta che i querelanti ritirarono ogni accusa e non si fecero più vivi.

Quell’inchiesta in difesa di Padre Pio ruppe il muro di diffidenza che esisteva da anni. Altri giornali si interessarono del religioso. Ma non più dando credito ai soliti dubbi e sospetti, conseguenza delle condanne ecclesiastiche. Seguendo la via tracciata dai documenti che mi aveva consegnato Pagnossin, veniva raccontata la “passione di Padre Pio, innocente condannato”.

Furono quelle testimonianze a dare una svolta alla storia del Padre. Era il 1969. Quasi quarant’anni prima che si potessero conoscere gli incartamenti dell’Archivio segreto del Vaticano. Pur restando documenti disprezzati, diffidati, eretici, sospettati, ufficialmente ignorati, fecero opinione, smossero le coscienze, incrementarono l’amore per Padre Pio, incoraggiarono tutti i suoi ammiratori.

Ebbero forse un benefico influsso anche sui confratelli del Padre. Alla fine di quell’anno, esattamente il 4 novembre 1969, il superiore generale dei Frati Cappuccini chiese al vescovo di Manfredonia di poter cominciare a raccogliere materiale sulla vita del religioso in vista di una possibile apertura del processo per la beatificazione. Si rivolse al prelato per seguire le disposizioni del diritto canonico, che stabilisce che la prima fase di un processo di beatificazione deve svolgersi nella diocesi dove il candidato alla santità visse e morì.

In quel periodo, la diocesi di Manfredonia era governata da un amministratore apostolico, monsignor Antonio Cunial, veneto di Treviso, il quale, in data 23 novembre 1969, rispose che si associava con gioia alla richiesta perché aveva sempre avuto grande ammirazione per Padre Pio, e che quindi avrebbe preparato subito tutte le carte necessarie.

La risposta di monsignor Cunial aveva un valore importantissimo. È chiaro che il vescovo, prima di darla, aveva interpellato il Sant’Uffizio e la Congregazione delle Cause dei Santi. E se era stato autorizzato a una risposta positiva, significava che un certo cambiamento a favore di Padre Pio era in corso anche in Vaticano.

I Frati Cappuccini si sentirono galvanizzati. Dopo decenni di dolore, il 1969 si chiudeva con un raggio di sole e il 1970 si apriva all’insegna dell’entusiasmo e della speranza. Cominciarono a lavorare alacremente per la grande avventura di un processo di beatificazione. Il superiore generale scelse due religiosi della provincia di Foggia, Padre Lino Barbati e Padre Gerardo Di Flumeri, e li incaricò, con il titolo di “delegati speciali per la causa di Padre Pio”, di organizzare uffizio e lavoro.

Padre Gerardo, che aveva allora 40 anni, si presentava particolarmente preparato all’impresa. Dopo l’ordinazione sacerdotale, aveva studiato Teologia dogmatica all’Università Gregoriana di Roma e Sacra Scrittura al Pontificio Istituto Biblico, sempre di Roma. Aveva poi svolto attività di insegnante ed era stato superiore di conventi e poi definitore provinciale.

Padre Gerardo si buttò a capofitto in quel nuovo incarico, portandovi le sue doti di intelligenza e di cuore. Fondò una rivista mensile dal titolo Voce di Padre Pio. Il primo numero uscì nel luglio del 1970. Quella pubblicazione gli consentiva di tenere i contatti con tutti gli ammiratori del Padre sparsi per il mondo. E fu un’iniziativa preziosissima, attraverso la quale Padre Gerardo raccolse innumerevoli testimonianze sulla santità del confratello. Inoltre, coi suoi articoli poteva trasmettere informazioni e resoconti di come procedeva la causa. Organizzò subito anche la pubblicazione dell’Epistolario di Padre Pio, che divenne un libro di grande valore ascetico e mistico.

Intanto, il 5 giugno 1970, Paolo VI nominò arcivescovo metropolita di Manfredonia monsignor Valentino Vailati, un lombardo che a sua volta, sia pure con la prudenza necessaria per il rispetto dovuto al Sant’Uffizio, era un simpatizzante di Padre Pio. Subito dopo il suo insediamento a Manfredonia, avvenuto il 22 agosto 1970, invitò il clero e i fedeli della sua diocesi a portare in curia tutti gli scritti che potevano avere del Padre in modo da conservarli.

Il 20 febbraio 1971, Paolo VI, che aveva sempre dimostrato ammirazione per il religioso stigmatizzato, parlando ai superiori dell’Ordine cappuccino, espresse ancora una volta, in pubblico e con parole straordinarie, il suo pensiero sulla santità di quel religioso:

«Succederà per voi il miracolo che è successo per il Padre Pio. Guardate che fama che ha avuto! Che clientela mondiale ha adunato intorno a sé! Ma perché? Forse perché era un filosofo? Perché era un sapiente? Perché aveva mezzi a sua disposizione? No, perché diceva la Messa umilmente, confessava dal mattino alla sera, ed era, difficile a dire, rappresentante stampato delle stigmate di Nostro Signore. Era uomo di preghiera e di sofferenza».

Il 25 maggio 1971, il cardinale Corrado Ursi, arcivescovo di Napoli, si recò a San Giovanni Rotondo per inaugurare la monumentale Via Crucis, realizzata dallo scultore Francesco Messina, convertito da Padre Pio e diventato un suo fedele figlio spirituale. Nel maggio 1972, i Frati Cappuccini organizzarono il primo convegno di studi sulla spiritualità del loro confratello. Le iniziative per conoscere e celebrare Padre Pio crescevano di giorno in giorno. Il pubblico rispondeva. I pellegrinaggi erano ripresi. Ma da Roma, silenzio. La domanda ufficiale che aveva inviato monsignor Cunial nei primi mesi del 1970, corredata da tutti i documenti indicati dal regolamento per le cause dei santi, non aveva mai avuto risposta.

All’inizio del 1973, e precisamente il 16 gennaio, il nuovo vescovo, monsignor Vailati, accompagnato dal postulatore generale dei Cappuccini, Padre Bernardino da Siena, e dai suoi due delegati per questo processo, Padre Lino Barbati e Padre Gerardo Di Flumeri, andò di persona alla Congregazione delle Cause dei Santi a consegnare nelle mani del cardinale prefetto, Paolo Bertoli, tutta la documentazione prevista dalle norme canoniche. Ricevette una risposta nel luglio del 1974, cioè dopo 17 mesi. La Congregazione informava che la domanda non presentava difficoltà insormontabili per essere accolta, ma necessitava di altra documentazione e inoltre la Congregazione auspicava che un’eventuale apertura del processo non avvenisse prima di dieci anni dalla morte di Padre Pio. Tutte le speranze maturate si congelarono. Era il Sant’Uffizio che negava l’autorizzazione necessaria a procedere. Autorizzazione che allora era obbligatoria. La Congregazione delle Cause dei Santi continuò a inviare la richiesta, ma le risposte erano sempre negative. Il supremo tribunale ecclesiastico, che aveva condannato ripetutamente Padre Pio, non era disposto a riconoscere di aver sbagliato. Il tempo scorreva.

Passarono gli anni, dal 1975 al 1978, e non accadde niente. Ma, alla fine del 1978, “arrivò da molto lontano” un grande profeta, un potente messaggero di Dio, Karol Wojtyła, e tornarono le speranze. Quel messaggero, che sul trono di Pietro aveva assunto il nome di Giovanni Paolo II, era un grande amico di Padre Pio.


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