di Gennaro Preziuso, da “Padre Pio, l’apostolo del confessionale” (San Paolo, 1998).
Pur se richiamo di cielo, pur se “angelo in terra”, Padre Pio rimaneva straordinariamente, incredibilmente un uomo. Rapito nel soprannaturale, non si era mai lasciato sorprendere in pose ascetiche o in atteggiamenti mistici. Era un frate “non comune”, che viveva nella più assoluta ordinarietà.
Il suo aspetto umano era ricco di componenti: la personalità, il carattere, l’indole naturale, la sensibilità, l’intelligenza, la volontà, la grande capacità di amare, di lavorare, di soffrire, il bisogno d’affetto.
La compattezza della sua personalità rifletteva le caratteristiche del luogo in cui era nato, luogo delimitato dalla roccia, da una terra aspra, povera di risorse, da un lembo di natura “essenziale”.
L’ambiente famigliare aveva esercitato un influsso notevole sul suo temperamento, portato costituzionalmente alla riflessione. Un ambiente agricolo, umile, modesto, legato alle tradizioni, al buon umore, fatto di lavoro, di sacrificio, di rinunzie, di preghiere, di santo timor di Dio.
Da ragazzo il suo spirito di osservazione, coniugato con una sensibilità non comune, aveva determinato in lui una maturità precoce. Il suo desiderio di appartarsi non era misantropia, ma bisogno impellente di alimentare con la preghiera quel virgulto vigoroso di religiosità che sentiva sempre più crescere in lui. Questo lo faceva essere “sbrigativo”. Non voleva sciupare il tempo.
Il tormento interiore vissuto prima della risposta decisiva alla chiamata di Dio, il distacco dalla mamma e dalle persone care, l’anno di noviziato, la “formazione” e le discipline assimilate, avevano interagito in lui e forgiato definitivamente il suo carattere.
Predisposto e sempre pronto all’obbedienza, aveva sottolineato il suo diritto alla vita al padre provinciale quando questi, nonostante il suo stato di salute, lo voleva in convento vivo o morto.
Incline al sacrificio, non rinunziava a quanto gli era dovuto. Durante il servizio militare non aveva esitato a chiedere anche l’intervento di persone autorevoli perché fosse riconosciuta la sua infermità, per la quale gli spettava l’esonero.
Conosceva l’arte del “voler bene”. Sapeva chiedere scusa se involontariamente, con poco garbo o con un fare sbrigativo, aveva urtato la sensibilità di un confratello. Si commuoveva per un gesto di cortesia o se sapeva che qualcuno stava pregando per lui. Era capace di delicatissime attenzioni.
Padre Gerardo Di Flumeri, il vice postulatore della sua causa di canonizzazione, in proposito ricorda: “Il 16 ottobre ricorreva il giorno del mio onomastico. Come sempre, mi ero ritirato in ufficio a lavorare. Non avevo veduto il Padre ed aspettavo, perciò, con impazienza le ore 11 per salutarlo. Quella mattina non sentii il suo passo cadenzato e strisciante, accompagnato dai forti colpi di tosse. Continuavo il mio lavoro quando, all’improvviso, mi sembrò che qualcuno si fosse fermato vicino all’uscio e lo avesse toccato delicatamente. Insospettito, mi alzai ed aprii. Era lui, sorridente e un po’ imbarazzato, come un fanciullo sorpreso dalla mamma a fare qualche marachella. «Auguri», mi disse e, togliendolo dalla toppa dove l’aveva inserito, mi diede un fiorellino. Lo ringraziai commosso e gli baciai la mano”.
Padre Pio viveva di cuore e pertanto viveva male perché bisognava «morire in tutti i momenti di una morte che non fa morire se non per vivere morendo e morendo vivere» (Epist. I, 1247s).
Diceva: «Soffro quando non soffro», ma ciò non significava che nelle sue carni non avvertisse il dolore. Amava la sofferenza per i frutti spirituali che riusciva a dare, ma seppe dire anche: «Non ne posso più!», specie quando si accorse che era stato tradito da tutti. Cercava refrigerio nelle calde giornate d’estate. Non riusciva mai a scaldarsi nei rigidi inverni del Gargano. Pur se passava tutto il suo tempo lavorando e pregando, si interessava di problemi sociali, parlava di politica, di attualità, di arte. Si divertiva tanto alle recite “pro Casa Sollievo”, organizzate nel salone del convento.
Era bisognoso di affetto, di amicizia, di compagnia. Nel momento in cui un confratello si separava da lui non esitava a dire: «Statti un altro poco. Vienimi a trovare più spesso».
Quando proibirono a Pietruccio di salire nella sua cella si lasciò sfuggire questo lamento: «Pure con un povero cieco se la prendono! Neppure un amico mi hanno lasciato».
A sera partecipava all’ora di “vita comune”. Amava conversare con affabile e gioviale vivacità. Diventava perfino “brillante” con arguzie e battute di spirito accompagnate da una mimica consumata. Era contento se riusciva a suscitare ilarità e sorrisi tra coloro che lo ascoltavano. Sembrava quasi impossibile vedere quell’uomo, martoriato da tanti dolori fisici e spirituali, divertirsi e divertire innocentemente raccontando aneddoti o assumendo atteggiamenti che trasmettevano allegria e buonumore.
Le sue storielle avevano comunque e sempre uno sfondo morale. Una volta, per spiegare ad un avvocato, che gli era stato appena presentato, il motivo per cui lo stesso non sarebbe di certo andato in Paradiso, disse: «Sapete perché sant’Ivone è l’unico avvocato che sia entrato in Paradiso? Ora ve lo dico io. Sant’Ivone stava da un po’ di tempo in Paradiso e ancora non aveva sollevato alcuna questione giuridica, com’era solito fare sulla terra. Un giorno, osservando il gran lavoro di san Pietro in portineria, cominciò a domandarsi con quale diritto questi esercitasse il privilegio delle sacre chiavi. Non era stato vergine, né dottore. Non era stato il primo degli apostoli, né il più simpatico di essi. Aveva finanche rinnegato il Maestro. Quel posto spettava a san Giovanni, che era stato apostolo vergine e prediletto, tanto da aver meritato di poggiare il capo sul petto del Signore. Aveva poi scritto il quarto Vangelo e l’Apocalisse. Sant’Ivone comunicò queste sue considerazioni ai vari componenti della Corte celeste. Si formarono capannelli, si intrecciarono vivaci discussioni e molti conclusero affermando che le eccezioni mosse dal santo avvocato erano ragionevoli e fondate. Da quel giorno san Pietro notò che la gente, rivolgendogli sguardi malevoli, cercava di sfuggirlo. Non seppe darsi una spiegazione fino a quando l’Eterno Padre, informato della questione, lo convocò per una formale udienza. Sant’Ivone, dopo aver rappresentato sommariamente i fatti, diede inizio alla sua arringa. Enumerò i meriti… che mancavano a san Pietro, elencò i difetti dello stesso e dimostrò che il diritto alle sacre chiavi spettava invece all’apostolo Giovanni, l’apostolo dell’amore che, tra l’altro, sul Golgota, ai piedi della Croce, aveva preso con sé la Vergine Maria. Un brusio di consensi favorevoli si levò dalla Corte celeste. L’Eterno Padre, con cenni del capo, sembrava condividere ed approvare. A san Pietro caddero di mano le chiavi. “Ivone, hai finito?”, chiese l’Eterno Padre. “O Altissimo, a me pare di aver dimostrato…”. “Sì, mio caro Ivone, hai dimostrato… e tutto quello che hai detto sembra giusto, pertinente ed appropriato… ma, quello che mio Figlio ha fatto, ha fatto ed è ben fatto”. E calcandosi lo zucchetto sul capo sciolse la seduta. San Pietro gongolante di gioia, si vide nuovamente riverito dai celesti. Riprese le chiavi e, avvicinandosi a sant’Ivone, che stava per svignarsela, disse: “Senti, tu sei entrato e prosit. Ma ti assicuro che sei il primo e l’ultimo avvocato che ha messo piede in Paradiso!”».
Padre Pio aveva la battuta facile, pronta, spontanea. Una volta, in sagrestia, una donna gli disse: “Padre, cosa devo dire da parte sua a mia sorella Rosa?”. Padre Pio, tirando dritto e con un sorriso sulle labbra rispose: «Dille che diventi garofano!».
La signora Teresita De Vecchi di Arongo (Svizzera) raccontò: «Da circa tre settimane ero a San Giovanni Rotondo nella speranza di potermi confessare dal Padre. Ormai avevo perso le speranze. Gli impegni di famiglia mi imponevano di ritornare a casa. Prima di ripartire mi ricordai che alle tredici circa il Padre dava la benedizione ai fedeli radunati nel prato sotto la sua cella. Corsi verso il convento e, per strada, in cuor mio dicevo: “Voglio una benedizione grande, grande, tutta per me”. Arrivai nel prato dove una ventina di donne stavano terminando il Rosario. Mi dissero che il Padre si era ritirato già da diverso tempo. Continuai a ripetere, forse anche ad alta voce: “Padre, devo partire, datemi un saluto grande, grande, tutto per me”. Rimasi in attesa per circa dieci minuti guardando verso l’alto. Poi, all’improvviso, Padre Pio si affacciò alla finestra, alzò il braccio benedicente verso di me e, invece di sventolare il solito fazzoletto… agitò un lenzuolo. Tutti si misero a ridere e una donna disse: “Guardate, il Padre è diventato matto”. Io, invece, che avevo tanto desiderato avere una benedizione ed un saluto grande, grande solo per me, piansi di commozione».
Il mio Padre Pio!
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