La costante meditazione sull’eternità, che spingeva S. Pio da Pietrelcina a desiderare continuamente di raggiungere il Paradiso, ha le sue radici nell’esperienza che lui fa della presenza di Cristo.
di P. Luciano Lotti ofm capp.
«Sì, babbo mio, l’uomo non può comprendere che quando il paradiso si riversa in un cuore, questo cuore afflitto, esiliato, debole e mortale, non lo può sopportare senza piangere. Sì, lo ripeto, la gioia sola che riempiva il mio cuore fu quella che mi fece piangere sì a lungo» (Epist. I, p. 273).
La costante meditazione sull’eternità, che spingeva Padre Pio a desiderare continuamente di raggiungere il paradiso, ha le sue radici nell’esperienza che lui fa della presenza di Gesù. Cerchiamo di individuare quali sono gli elementi che maggiormente contribuiscono a questo che, potremmo chiamare, un contatto ravvicinato con la vita che verrà.
Il volto dell’eternità
Papa Giovanni Paolo II, nell’omelia durante la Messa di beatificazione di Padre Pio afferma: «Chi si recava a san Giovanni Rotondo per partecipare alla sua Messa, per chiedergli consiglio o confessarsi, scorgeva in lui un’immagine viva del Cristo sofferente e risorto. Sul volto di Padre Pio risplendeva la luce della risurrezione. Il suo corpo, segnato dalle “stimmate”, mostrava l’intima connessione tra morte e risurrezione, che caratterizza il mistero pasquale».
Il Papa parla di un’intima connessione tra morte e risurrezione, un passaggio che avviene – attraverso la fede – ogni qualvolta la croce attraversa l’esistenza. In realtà noi costatiamo ogni giorno quanto sia difficile andare con lo sguardo oltre le ferite e le sofferenze per vedere il volto di Gesù risorto. Sul volto di Padre Pio, invece – secondo quanto dice il Papa –, risplendeva «la luce della risurrezione» e non perché fosse insensibile o – sadicamente – gli piacesse soffrire, bensì perché sperimentava realmente la presenza del paradiso.
Una conferma è contenuta nella lettera del 9 agosto 1912 dove ricorda la sua ordinazione sacerdotale:
«Ho già incominciato a provare di nuovo il gaudio di quel giorno sacro per me. Fin da stamattina ho incominciato a gustare il paradiso… E che sarà quando lo gusteremo eternamente!?» (Epist. I, pp. 297-298).
La meditazione sull’eternità è variamente presente nella tradizione spirituale cristiana. Non di rado viene proposta come “antidoto” alle tentazioni l’ammonizione di Siracide 7,36: «Memorare novissima tua et in aeternum non peccabis» («In tutte le tue opere ricordati della tua fine e non cadrai mai nel peccato»). Come possiamo notare, Padre Pio rilegge al positivo questa affermazione, perché la meditazione sull’eternità non è un deterrente contro il peccato, ma alimenta il suo desiderio, gli porta serenità e in questo modo diventa la luce per il suo dolore.
Cristo ci procura un cibo eterno
Possiamo, però, aggiungere un’altra considerazione. L’eternità, per Padre Pio, non è un obiettivo da raggiungere, ma una vera propria esperienza che si concretizza attraverso la celebrazione dell’Eucarestia. San Giovanni Crisostomo propone un parallelo tra quanto ha operato Mosè nel deserto e quella che è l’azione di Cristo nella Santa Messa: «Mosè levava le mani al cielo facendone scendere la manna, pane degli angeli. Il nostro Mosè [Cristo] leva le mani al cielo e ci procura un cibo eterno. Il primo percosse la pietra, facendone scaturire torrenti d’acqua. Questi tocca la mensa, percuote la mistica tavola fa sgorgare le fonti dello Spirito. Ecco il motivo per il quale la mensa è posta al centro, come una sorgente, perché i greggi accorrano da tutte le parti ad essa e si dissetino alle sue acqua salutari».
La narrazione di Padre Pio è proprio quella di una persona che ha sperimentato la forza che scaturisce dalla celebrazione della Santa Messa. Alla luce di questa esperienza imposta tutta la sua esistenza, cercando di coinvolgere gli altri nell’incontro con Cristo, a volte superando perfino gli schemi e le situazioni più impossibili.
P. Alessandro da Ripabottoni ricorda una situazione particolare, vissuta da Padre Pio, proprio negli anni in cui era a Pietrelcina, quindi più o meno quando scrive la lettera che stiamo commentando. Come sappiamo, da ragazzo era stato alunno del maestro Domenico Tizzani, un ex prete che lui ricordava sempre con tanto affetto, nonostante avesse fatto una scelta che – nel clima religioso di allora – lo poneva ai margini della comunità cristiana. Con grande delicatezza, ma anche con la fermezza delle sue certezze interiori, Padre Pio era riuscito a comunicare la speranza e lo sguardo verso l’eternità a una persona che rischiava di morire nella disperazione: «Fu una vera grazia per il suo amico professore, perché nessun sacerdote osava accostarsi in quella casa che dicevano fosse scomunicata… Restarono soli con Dio: l’infermo si confessò, pianse amaramente le sue colpe ed in quella casa tornò la grazia del Signore… L’infermo, dopo qualche giorno, rese l’anima a Dio. Se Padre Pio non si fosse trovato, quel sacerdote sarebbe morto disperato, perché nessuno dei sacerdoti locali osava andare a fargli visita».
È questo il frutto della meditazione sull’eternità che accompagnava le sue giornate.
Liberi per essere eterni
Papa Francesco, nel suo messaggio della Quaresima (che ovviamente non è legato solo a quel periodo) afferma: «Facendo esperienza di una povertà accettata, chi digiuna si fa povero con i poveri e “accumula” la ricchezza dell’amore ricevuto e condiviso». Comprendere l’eternità è aprirsi all’amore condiviso, cioè far sì che il dono della nostra esistenza agli altri, anticipi su questa terra quella pienezza di vita che godremo in Paradiso.
A circa diciassette anni, il giovane studente ginnasiale fr. Pio svolge un tema intitolato L’avaro. Dopo aver descritto la vita di stenti, portata avanti da un certo Nerone, che pensava solo «ad accumulare ricchezze sopra ricchezze e per questa cagione menò ancora una vita asprissima», il giovane studente immagina il momento della sua morte, quando ormai sulla porta dell’Inferno sente i demoni che discutono con Minosse su quale castigo imporgli. Alla fine, il capo dei demoni emana la sentenza: «Io giudico che l’unica penitenza sarebbe quella di mandarlo un’altra volta a casa per fargli vedere come vengono trattate le sue ricchezze per farlo quindi più disperare» (Lavori scolastici, p. 121). L’elemento antropologico contenuto in questo piccolo racconto è molto importante: sin dalla sua formazione Padre Pio sente che il rapporto uomo-mondo, non può essere compreso se non alla luce di una libertà profonda, quella che nasce dal distacco e dal dono. Sperimentare attraverso una visione la bellezza del Paradiso è opera della grazia di Dio, che liberamente secondo i suoi disegni, può concedere certe grazie come e quando lo ritiene opportuno.
Ma esiste un modo ordinario di sperimentare la gioia dell’eternità e di attenderla con quella serenità che ci viene dalla fede; questo modo consiste nella nostra capacità di staccarci gradatamente dall’esistenza e saper cercare realmente le cose che valgono.
Le forme di penitenza e – soprattutto – una vera carità che si fa dono, sono l’accesso più semplice e immediato a quella conoscenza che amplia l’orizzonte dell’uomo oltre la sua morte, ma anche oltre quell’egoismo e quell’individualismo che costituiscono la sua morte interiore.
Padre Pio ci mostra la bellezza di un mondo che non è fine a se stesso, ma specchio di quello che vivremo e di quello che saremo nell’eternità.
(Fonte: Voce di Padre Pio, aprile 2021)