Estratto del cap. VIII “Assalto alle offerte” del libro “I nemici di Padre Pio” (di Francobaldo Chiocci, Reporter Edizioni, 1969).
[…] Abbiamo avuto modo di constatare, occupandoci di Giuffrè, le responsabilità di padre Clemente da Milwaukee, di padre Bonaventura da Pavullo, di padre Emilio da Matrice, dello stesso padre Amedeo e di molti altri cappuccini che ora ritroviamo, sempre vegeti e attivi, uniti nel calunniare Padre Pio, che non li ha seguiti ai tempi d’oro di Giuffrè e non può aiutarli ora che la cuccagna è bruscamente finita.

La più clamorosa e grave conferma di questa affermazione è rappresentata dal famoso sacrilegio dei registratori, concertato a Roma e concretato a San Giovanni Rotondo. Lo “stratega dei microfoni” è padre Bonaventura da Pavullo, come già abbiamo accennato. Egli, però, opera in nome e per conto – almeno così egli dichiara – del ministro generale padre Clemente da Milwakee. Padre Bonaventura da Pavullo ha un locale suo “killer d’anime” in padre Giustino da Lecce, il frate che più di ogni altro è vicino a Padre Pio perché ne è l’infermiere e l’accompagnatore: è lui che, materialmente, organizza l’impianto elettro-spionistico per carpire chissà quali favolose rivelazioni di congiure dalle confessioni che Padre Pio ascolta dai suoi penitenti; nell’ingrato compito, gli sono fervidamente a fianco il guardiano padre Emilio da Matrice, padre Daniele Maria da Roma, fra Masseo e il provinciale di Foggia, padre Amedeo. Dai primi di maggio ai primi di luglio del 1960 Padre Pio e i suoi penitenti sono spiati implacabilmente, senza tener conto del sigillo sacramentale. I nastri vengono prima ascoltati ed elaborati localmente e quindi inviati a Roma, nelle mani del generale dell’ordine, per mezzo di padre Bonaventura da Pavullo. Dopo la supervisione e la super-audizione, le incisioni magnetiche giungono «in altissimo loco» (la definizione è dell’intermediario) per il tramite di un diligentissimo prete romano, del Divino Amore don Umberto Terenzi.
Il 15 luglio 1960, padre Bonaventura da Pavullo, scrivendo a padre Giustino da Lecce, spiega: «È giusto che l’ordine veda ed abbia antecedentemente notizie di quanto viene poi inoltrato alle superiori autorità».
Il galoppino tra l’ordine e il Vaticano, e che a un certo punto è in grado di disporre persino dèi Secretum Sancti Offìcii; ad esempio, sin dal 27 giugno 1960, egli scrive a padre Giustino da Lecce sul retro di un messaggio di padre Bonaventura di Pavullo: «Quanto dietro disposto vale, per ordine superiore, anche per il padre Daniele M. da Roma e per il padre guardiano e per il padre provinciale. In fede e sub secreto S.U.» è, come abbiamo detto, don Umberto Terenzi.
Il secretum che egli dì spensa con estrema facilità può essere disposto soltanto dal Pontefice, dal segretario del Sant’Uffizio cardinale Ottaviani, dall’assessore Pietro Parente (ora diventato cardinale) e dal sostituto monsignor Crovini. Esclusa ovviamente la responsabilità del Papa, ed esclusa la responsabilità del cardinale Ottaviani e di monsignor Crovini – il primo avendo ordinato l’inchiesta sgradita ai nemici di Padre Pio e il secondo avendola condotta – non resta altro, per eliminazione, da supporre che don Terenzi si riferisca all’allora monsignor ed oggi cardinale Parente, di cui per altro si conosce la poca benevolenza sempre dimostrata nei confronti di Padre Pio e del suo movimento.
Non solo, ma quando lo scandalo dei registratori sacrileghi dilaga sulla stampa (Europeo del 5 novembre 1961 con un articolo di Nerio Minuzzo; Il Tempo del dicembre successivo con un’inchiesta – a nostra firma; Legge e Giustizia del giugno 1962 e il libro Padre Pio e i papponi di Dio di Luciano Cirri del settembre 1963), monsignor Parente non convoca al Sant’Uffizio i responsabili del sacrilegio, ma soltanto i frati e le persone sospettati di aver fornito ai giornalisti i documenti più compromettenti. Padre Pio viene spiato assiduamente per tre mesi consecutivi sinché un giorno, nel luglio del 1960, scopre i microfoni nei luoghi dove confessa e denuncia l’inaudita violazione del segreto sacramentale.
A un prelato del Sant’Uffizio, monsignor Giuseppe Orlandi, il quale cerca di consolarlo dall’accoramento che lo tormenta, Padre Pio intima: «Vieni a vedere cosa hanno fatto i miei fratelli», e lo conduce nella cella, dove gli mostra i microfoni n. scosti sotto il suo letto. Monsignor Orlandi, sconcertato tenta di consolarlo ancora: «Padre, perdoni loro perché non sanno quello che fanno». Ma il cappuccino, piangendo, replica:
«Eh! figlio mio, sanno; sanno quello che fanno. Non è per me, che soffro quando non soffro. È per le anime che Dio mi ha affidato…».
Che fine abbiano fatto quei nastri, non solo ascoltati da orecchie che sapevano quel che ascoltavano ma anche “ricuciti” da mani che sapevano quel che manipolavano, si può dedurre da questo brano di colloquio “in altissimo loco”.

Il cardinale Antonio Bacci si reca da Giovanni XXIII per perorare la causa di Padre Pio, stretto nella morsa dell’inchiesta Maccari. Papa Giovanni ascolta ma non condivide e, con il suo linguaggio alla buona, a un certo punto l’interrompe e taglia corto, concludendo il colloquio.
Le calunnie, e tra queste, soprattutto, le accuse di immoralità dedotte dalle registrazioni manipolate, erano state dunque fatte giungere persino al Papa, il quale, evidentemente, non poteva sapere le macchinazioni che quelle calunnie avevano partorito e non aveva ancora ragione di dubitare dei tanti autorevoli personaggi che si erano offerti di risolvere l’affare Padre Pio.
Un ultimo episodio: monsignor Mario Schierano, attuale sottosegretario alla segnatura apostolica, nel 1963 si reca a San Giovanni Rotondo e, parlando con Padre Pio nella sua cella, gli dice: «Padre, mi dispiace di quanto vi hanno fatto soffrire. Ho anche letto nei giornali che vi hanno messo i registratori nel confessionale». Padre Pio risponde: «Si, hanno osato tanto».
Ma all’accusa di immoralità, che serve per demistificare il mito di Padre Pio, deve aggiungersi anche quella di cattiva amministrazione della Casa Sollievo della Sofferenza, per giungere allo scopo concreto che i cappuccini inguaiati da Giuffrè si ripromettono: impossessarsi delle tanto agognate offerte già capitalizzate e da capitalizzare.
In questo clima giunge il grande inquisitore monsignor Carlo Maccari, assistito da un “prete bello”, don Giovanni Barberini, reduce da certe “assistenze spirituali” nei confronti di una piacente signorina a nome Vanda. L’inchiesta è il contrario di un’inchiesta.
Tanto è vero che un magistrato fiorentino, il dott. Giovangualberto Alessandri, si sente in dovere, il 20 settembre 1960, di scrivere al Papa per denunciare le sconcertanti iniziative, dell’inquirente. Riproduciamo integralmente il documento, anche perché ci esenta di soffermarsi ulteriormente sui metodi adottati da monsignor Maccari durante la sua “istruttoria”:
«Beatissimo Padre,
è con profonda emozione e dopo matura ponderazione che ardisco rivolgermi alla Santità Vostra per esporre quanto in coscienza ritengo riferire.
Sono figlio spirituale di Padre Pio da Pietrelcina, che conosco dal 1936 e mi reco sovente da lui per attingere la forza che mi sostiene nella mia vita sia privata, come padre di quattro figli, sia pubblica quale magistrato di corte di appello presso il tribunale di Firenze ove esplico l’attività di consigliere istruttore.
Purtroppo nell’agosto del corrente anno e nel mese di settembre in due lunghi soggiorni a San Giovanni Rotondo, ho dovuto constatare come si sia andati limitando l’attività sacerdotale di questo ministro di Dio, che in cinquant’anni del suo ministero, sia pure attraverso burrasche, non ha fatto altro che dare tutto se stesso per il bene della chiesa di Cristo, sempre completamente sottomesso alle disposizioni impartite dai suoi superiori ed a quelle della cattedra di San Pietro.
Dell’operosità e del fervore religioso di questo cappuccino fanno fede le conversioni e ritorni alla vita cristiana di innumeri persone; la costruzione sul Gargano, località un tempo impervia e selvaggia, del grandioso ospedale denominata “Casa Sollievo della Sofferenza” opera sorta con le offerte di tutti i fedeli del mondo e già il vostro augusto predecessore, Sua Santità Pio XII, ben consapevole dei fatti, si degnò di concedere la Sua approvazione e benedì tale iniziativa.
Ripeto dunque che da circa oltre un mese le cose sono cambiate a San Giovanni Rotondo, da quando è giunto sul posto mons. Carlo Maccari, nella sua veste di visitatore apostolico, il quale, evidentemente non si è reso conto dei fatti e non ha esattamente valutato la figura di Padre Pio.
Si è cominciato, con la scusa di portare l’ordine, di impedire l’accesso, durante la confessione delle donne, alla piccola chiesetta di Santa Maria delle Grazie, ponendo dei cancelli di ferro all’ingresso, negando così la possibilità ai numerosi pellegrini, in particolare le donne; di vedere ad una certa distanza il padre che confessa: secondo mons. Maccari, guardando Padre Pio, un vegliardo di 73 anni, le donne commettono peccato grave contro la purità! Questo è quello che ha detto!
Secondo l’opinione del visitatore le confessioni con il Padre devono essere brevi, non più di tre minuti! Se trascorso tale termine breve, la confessione non è terminata, la donna deve allontanarsi dal confessionale anche senza l’assoluzione del Padre: si arriva a cronometrare la permanenza in confessionale di alcune penitenti! Forse mons. Maccari ha la possibilità di scrutare le coscienze, senza ricevere le confessioni delle penitenti?
È stato negato ad una sordomuta che da più di 20 anni si confessa dal Padre, la facoltà di confessarsi a viso, davanti al confessionale, assumendo che la poveretta non fa peccati mortali e non è quindi necessario per il momento che riceva il sacramento della penitenza: tale divieto permane da un mese ed a esplicita domanda di revoca è stato opposto un rifiuto. Forse mons. Maccari può fare lucrare le sante indulgenze alle penitenti anche senza la confessione quindicinale?
Egli va dicendo alle donne che si recano la mattina alle 5 in chiesa alla Santa Messa celebrata dal Cappuccino: “Perché vi sacrificate tanto? State a casa a dormire, fate la calzetta, andate a spasso, a villeggiare!”. A quelle che si recano alla Benedizione Eucaristica serale per una visita al Signore dice: “Ma che Gesù Sacramentato! fate meglio ad andare a spasso!”. Ma le restrizioni si sono iniziate non solo con le donne ma anche con gli uomini: è stato vietato l’accesso alla sacrestia quando Padre Pio vi scende per celebrare la Santa Messa ed alla sera per impartire la benedizione eucaristica. Si dice perché il Padre possa prepararsi meglio al divin sacrificio e per le sacre funzioni: ma non sa il visitatore che oramai da oltre quarant’anni, proprio per meglio prepararsi si alza al mattino alle due od alle tre?
Nessuno deve entrare in convento prima delle 9 del mattino e tutti devono uscirne all’Ave Maria: questo in parte può essere giusto non dimenticando però che d’inverno l’Ave Maria suona alle 16.30: ma si lasci al Padre la facoltà di ricevere anche in altre ore le persone che desidera! conosce Lui le necessità delle varie anime!
Si è arrivati a vietare l’accesso al convento di un povero cieco, figlio spirituale del Cappuccino da oltre 30 anni!
Continuando su questa strada è chiaro ed evidente lo scopo che ci si prefigge: non quello di alleviare le sofferenze ed il lavoro di Padre Pio, ma quello di isolarlo dai suoi figli spirituali!
Conosco per esperienza personale quanto sia difficile il lavoro del giudice e ne conosco i travagli di coscienza: in molti casi ricorro più volte a chiedere lumi allo Spirito Santo!
Non dissimile alla mia è la missione affidata a mons. Maccari, ma a mio giudizio ed indegnamente, debbo dire che egli tradisce, forse inconsapevolmente, lo scopo per cui è stato inviato dalla Santità Vostra a San Giovanni Rotondo, portando la confusione ed il disorientamento tra le coscienze!».
È il 17 novembre 1961 quando un breve comunicato alla stampa, diffuso dalla curia generalizia dei Cappuccini, informa finalmente che tutte le azioni della Casa Sollievo della Sofferenza sono state tolte a Padre Pio, che le deteneva per speciale dispensa di Pio XII, e trasferite alla Santa Sede. Le operazioni finanziarie legate al trasferimento di proprietà sono assai complesse. Non ne seguiremo le vicissitudini e salteremo a pie’ pari tutto il periodo che intercorre da quel 17 novembre 1961 al 23 settembre 1968, giorno della morte di Padre Pio, periodo in cui il Cappuccino, come amministratore unico del suo ospedale è servito soltanto, in pratica, per continuare a raccogliere offerte e a calamitarle da ogni parte del mondo. Soltanto negli ultimi quattro anni, come abbiamo già ricordato, sono giunte ufficialmente al convento di San Giovanni Rotondo, e registrate alla voce “Padre Pio” offerte per un ammontare di 628 milioni di lire: questa cifra è dichiarata da padre Clemente da Santa Maria in Punta, amministratore apostolico della provincia monastica di Poggia ed ora anche successore di padre Pio nell’amministrazione del suo ospedale.
A questo punto occorre chiarire che la Casa Sollievo della Sofferenza è una società immobiliare le cui azioni, sino al 17 novembre 1961, erano per il 99 per cento in mano a Padre Pio e solo per l’uno per cento prima al suo collaboratore Carlo Kiswarday e poi al conte Giovanni Telfner, un altro devoto del Cappuccino. Con il rescritto di Pio XII del 4 aprile 1957, la società aveva dato in affitto per un cifra simbolica, la gestione della Casa Sollievo alla Congregazione del Terz’Ordine francescano Santa Maria delle Grazie di San Giovanni Rotondo, formata da cinquanta membri di cui era direttore spirituale Padre Pio e il commendator Angelo Battisti, funzionario della Santa Sede, fungeva da ministro. Il 5 maggio del 1957 i cinquanta membri della confraternita avevano delegato a Padre Pio ogni facoltà e ogni diritto. Padre Pio, a sua volta, aveva affidato la sua procura al commendator Battisti e all’avvocato Giovanni Pennelli, già pretore di San Giovanni Rotondo.
Questo stato giuridico, con adattamenti vari conseguenti all’inchiesta Maccari, si è formalmente protratto sino alla morte di Padre Pio. Con il suo decesso, la procura ovviamente è deceduta. Se ne è impossessato però immediatamente padre Clemente di Santa Maria in Punta, come se il voto dei cinquanta della confraternita fosse stato ereditato ipso facto da lui nella sua veste di massima autorità gerarchica cappuccina della provincia. Sicché, in data 29 settembre 1968, egli invia «Ai diletti terziari della Fraternità Santa Maria delle Grazie in San Giovanni Rotondo, ai rr. cappellani ed alla ven.de suore, ai preg.mi signori dirigenti e sanitari, a tutto il personale della Casa Sollievo» una lettera circolare in cui si legge testualmente:
«Nell’atto di assumere la carica di direttore ad tempus della Fraternità Santa Maria delle Grazie, per continuare, secondo le mie limitate possibilità; l’opera benemerita del compianto Padre Pio da Pietrelcina, sento il bisogno, non potendolo fare di persona, di venire a Voi con lo scritto. Solo il pensiero che il Padre celeste è vicino, col Suo potente aiuto, a chi si abbandona in Lui, mi ha indotto ad accettare il ponderoso incarico, denso di responsabilità. A confortare il mio spirito si aggiunse la considerazione che il venerato Fondatore, continuando, presso il Signore, l’azione svolta in terra, in favore della sua opera prediletta, Casa Sollievo della Sofferenza, non mancherà di illuminarmi e sostenermi con l’affettuosa comprensione di cui mi fu largo nei cinque anni di mio servizio alla provincia monastica San Michele Arcangelo. Nel ricordo e nell’amore del nostro indimenticabile Scomparso, son certo che tutti Voi, continuerete a prodigarvi, come già nel passato, a mantenere in piena efficienza la grande, benefica realizzazione di Padre Pio. Ho la consolazione di comunicarvi che, durante le mie assenze, mi sostituirà, nell’incarico di direttore, il superiore del convento di San Giovanni Rotondo, padre Carmelo da San Giovanni in Caldo, da Voi, giustamente, apprezzato ed amato. Poniamo insieme la famiglia di Padre Pio. E però procuriamo concordi il bene del prossimo che soffre nel corpo e nell’anima, in corrispondenza alle attese della Chiesa e della società, ed ancora perché la memoria di Padre Pio, attraverso l’ininterrotto perfezionamento della sua Casa, viva e cresca, nella fede e nella pietà degli uomini. Più che mai Vi tengo presenti nella mia preghiera. Fate così anche Voi per me. Augurandovi ogni bene di gran cuore paternamente Vi benedico».
Padre Pio ha dunque un successore e i suoi “orfani” hanno ereditato anche un direttore spirituale. Chi è costui? È un amico, un estimatore, un convinto dell’opera benemerita del Fondatore? Sembrerebbe di sì, a leggere la sua umile lettera circolare.

Padre Clemente da Santa Maria in Punta (al secolo Guglielmo Gattiani, ndr) è, però, anche l’autorevole cappuccino di cui tracciamo il seguente breve curriculum, cominciando da un infortunio che gli capitò il 4 maggio 1967 quando scrisse al settimanale Il Borghese per smentire alcune affermazioni che lo riguardiamo contenute in una inchiesta di Luciano Cirri dal titolo Il maledetto Giuffrè e i santi usurai. L’articolista, elencando i conventi delle suore cappuccine che erano stati coinvolti nello scandalo Giuffrè, aveva rilevato che loro assistente generale, al tempo delle operazioni usurarie, era appunto padre Clemente da Santa Maria in Punta, amministratore apostolico della provincia monastica di Foggia e intimo amico del vescovo di Padova monsignor Bortignon.
Quest’ultima qualifica, non fu considerata diffamatoria, ovviamente. Per negare di essere stato assistente generale delle monache cappuccine che trafficavano con Giuffrè, padre Clemente scrisse, dunque, a Il Borghese questa indignata rettifica:
«Ill.mo Signor Direttore, solo oggi leggo la pesante insinuazione fatta dalla sua rivista nei miei confronti. Sul numero del 6 aprile 1967 de Il Borghese a pagina 678, Luciano Cirri scrive: “Ma nemmeno le buone, dolci suore di clausura, le sepolte vive, vengono tenute fuori dalla banca Giuffrè. Le Monache Clarisse Cappuccine, ovviamente, dipendono, per i loro atti esterni, da un assistente generale; e questa carica è ricoperta, dal 1953 al 1957, da padre Clemente da Santa Maria in Punta, attualmente amministratore apostolico della provincia cappuccina di Foggia”. A norma della legge sulla stampa prego rettificare che io non sono stato mai assistente generale delle monache cappuccine. Fui invece, dal 12 maggio 1953, delegato dalla congregazione dei religiosi per unire i monasteri delle cappuccine in federazione. Questo e non altro fu il mio compito. E dire diversamente è affermare il falso».
Alla precisazione, Luciano Cirri replicò in questi termini:
«Padre Clemente da Santa Maria in Punta, è un frate che protesta, affermando di non essere mai stato assistente delle monache cappuccine, e sostenendo che “dire diversamente è affermare il falso”. Giriamo per competenza l’osservazione agli Analecta Ordinis Fratrum Minorum Capuccinorum nei quali, a proposito del VI Defmitor Generalis Rev.mus P. Clemens a S. Maria in Punta, a Provincia Veneta, Defmitor Generalis prò lingua italica, si legge che egli, nato a Santa Maria in Punta (Diocesi di Adria) il 22 gennaio 1904 e ordinato il 25 aprile 1932 dopo una bella carriera piena di riconoscimenti e di soddisfazioni, è stato Assistens relig. Foederationis a S. Clara Capuccinarum sub tit. S. Ioseph (Italia sept.) et Foede-rationis a S. Clara Capuccinarum sub titulo B.M.V. Immaculatae (Italia centr. et merid.) 1953-1957. In altre parole, padre Clemente da Santa Maria in Punta, al secolo Albino Vincentini, è stato assistente della federazione delle clarisse cappuccine dell’Italia settentrionale e di quella delle clarisse cappuccine dell’Italia centrale e meridionale, dal 1953 al 1957: come ho appunto scritto. Ma il fatto è un altro: padre Clemente da Santa Maria in Punta sapeva o non sapeva che le “sepolte vive” affidate alla sua assistenza si giuocavano l’anima e molti milioni con Giuffrè? E se non sapeva, che razza di assistente era mai?».
Di fronte a questa sprezzante risposta, che lasciava soltanto l’alternativa di un’accusa di mendacio o di inettitudine, padre Clemente di Santa Maria in Punta, pur così loquace e battagliero (aveva in precedenza anche tentato invano di impedire con diffide legali la pubblicazione del meraviglioso epistolario di Padre Pio sul quotidiano Il Tempo), preferì ritrovare prudentemente la vocazione all’umiltà francescana e tacque.
Inoltre, nei confronti di padre Clemente da Santa Maria in Punta “successore” di Padre Pio nel delicato compito di direttore spirituale del Terz’Ordine francescano, l’imbarazzante referenza di essere stato uomo di fiducia di quel padre Clemente da Milwakee, generale dell’Ordine, di cui ci siamo già occupati a proposito di Giuffrè, dei registratori sacrileghi e della inchiesta Maccari. Nella relazione segreta del suddetto Generale pubblicata in appendice al fascicolo terzo del volume 80 degli Analecta dell’Ordine, egli infatti viene citato in latino con queste parole: «In illa provincia Administrator Apostolicus est constitus. In eo nunc res est» (In quella provincia è stato nominato un amministratore apostolico. Nelle sue mani è la questione).
Che la questione sia veramente e tutta nella sue mani, padre Clemente da Santa Maria lo dimostra subito sia nella scelta dei collaboratori, e sia nelle iniziative nei confronti del “venerato fondatore”. Tra i suoi collaboratori, ad esempio, figura, con il delicato incarico di economo provinciale, padre Angelico di Alessandria, ex definitore della provincia monastica di Alessandria, anch’essa coinvolta nella disavventura finanziaria di Giuffrè. Padre Angelico è subentrato nella carica ad un frate estremamente leale e sincero come padre Carlantonio, il quale, in data 13 febbraio 1965, non sa far di meglio, per neutralizzare la campagna di stampa che comincia ad inchiodare i cappuccini giuffreiani alle proprie responsabilità, che dichiarare testualmente in precisazioni ufficiali, tra l’altro: «Non può neppure affacciarsi il dubbio che i fondi dell’opera di Padre Pio possano essere sottratti e devoluti ad altri scopi».
Nessuno si perita di chiedere al precisatore, anche indipendentemente dalle vicende connesse al caso Giuffrè, dove mai i cappuccini di Foggia abbiano trovato quei tanti soldi – quasi un miliardo e mezzo, sostiene il commendator Angelo Battisti nel suo rapporto-denuncia alla Segreteria di Stato – che sono serviti a costruire lo Studentato cappuccino di Manfredonia e la curia provincializia di Foggia, due imprese sulle quali abbiamo evitato un approfondimento specifico malgrado la documentazione in nostro possesso.
Padre Clemente vuol dimostrare subito anche a Padre Pio che la questione è nelle sue mani. Sin dal primo incontro con lui, nella sua veste di amministratore apostolico, conferma l’opera del guardiano-carceriere padre Rosario d’Alimenusa – che sarà allontanato soltanto per intervento personale di Paolo VI, a ciò sollecitato da un suo ex diocesano milanese, il commendator Alberto Galletti – (l’uomo che aveva portato nel 1959 all’allora monsignor Montini la profezia di Padre Pio secondo la quale l’arcivescovo di Milano sarebbe diventato Papa); non solo, ma chiede a Padre Pio di smentire il sacrilegio dei registratori. Padre Pio, però, questa volta non obbedisce: non si tratta del male fatto a lui, ma del male fatto agli altri e, soprattutto, ad uno dei più gelosi sacramenti. Padre Pio gli risponde:
«Se avessi saputo che c’erano i registratori nella cella, mai vi avrei messo più piede per non esporre il Sacramento a profanazione».
In compenso, riesce a farsi obbedire in una successiva e già ricordata occasione: quando il 16 dicembre 1964, sottopone alla firma di Padre Pio una dichiarazione con la quale egli deve attestare che mai e poi mai è stato perseguitato e che è stato, anzi, sempre amorevolmente protetto dai suoi confratelli. Abbiamo spiegato come ciò sia potuto accadere, e come la vicenda si sia risolta in un boomerang perché, trapelata e attestata da tre autorevoli testimoni persino presso il Papa, essa è stata subito interpretata forse come l’atto più odioso delle persecuzioni contro Padre Pio ed ha costituito il motivo di scandalo che ha convinto alcuni suoi fedelissimi ma riservati devoti a “tirar fuori le carte” e a provocare la decisiva campagna in difesa del “santo osteggiato”.
Padre Pio quella volta aveva firmato perché il male era tutto per lui, ed il male degli uomini, per uno come lui, era il supremo bene del Cielo. San Giuseppe da Copertino, quando in carcere l’inquisitore gli contestava come accuse le calunnie e gli annunciava le pene che quelle accuse comportavano, rispondeva, ad ogni capo di imputazione: «Buono, buono, questo sì che è buono…».